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Il riso, lo zucchero e le altre carte da poke

L’ascesa della via hawaiana al pasto veloce

08 aprile 2022

 

poke-italia

Il paniere dell’inflazione è quell’insieme di beni e servizi i cui prezzi sono rilevati mensilmente dall’Istat per calcolare quel dato (l’inflazione, appunto) tornato prepotentemente e tristemente attuale negli ultimi mesi. Ogni anno l’Istat toglie alcune voci dal paniere, quelle in declino, e ne inserisce altre che evidenziano il trend opposto. Tra queste ultime, nel 2022, oltre ai ben noti test Covid o al saturimetro è comparsa anche una parola pressoché sconosciuta in Italia fino a pochi anni fa: il poke. Anzi, il “poke take away” per la precisione, perché è in particolare la versione da asporto che è balzata agli occhi degli statistici. In realtà quella dell’Istat è stata una proclamazione quasi d’ufficio, perché chiunque è andato in giro per centri abitati negli ultimi tempi ha percepito il fenomeno a vista d’occhio: le “pokerie” si moltiplicano,  anche a Siena città, e su questa scia altri pubblici esercizi già presenti hanno cominciato a elaborare la propria specifica offerta nel genere.

 

DI CHE SI PARLA

Per la Treccani poke è un “piatto tipico hawaiano a base di pesce crudo, guarnito anche con cereali, verdura, frutta, salse e altri ingredienti; spesso in combinazione con la voce inglese bowl (‘ciotola’). Letteralmente, pare che nella lingua delle Hawai significhi “tagliare a pezzi”, non a caso. In una ciotola di poke si rincorrono piccole parti di cibo: i chicchi di riso o di farro, le melanzane tritate o i fagioli, l’avocado il pesce o i kiwi spezzettati. Ingredienti già pronti al momento di comporre il piatto secondo un mix che può avere molte varianti, e che probabilmente spiega molto del recente successo: secondo Dissapore “è stato in grado di rispondere a una richiesta di mercato insoluta: quella di cibo salutare, leggero, light, digeribile, a basso contenuto calorico da fruire in modo accessibile”.

 

SUCCESSO EPOKALE?

Il fenomeno è talmente giovane che scarseggia di dati di mercato. L’anno scorso ne ha raccolti un po’ Border Growth Capital, advisor in Italia per startup e piccole e medie imprese:  se la prima “pokeria” italiana ha aperto a Roma solo nell’autunno 2017, nel 2021 se ne contavano già 378; è pensabile che a giugno di quest’anno saranno almeno il doppio. Due anni fa il poke era già l’ottavo cibo a domicilio più ordinato a domicilio. Di catene a marchio (in franchising) ce ne sono già una decina, e se il fenomeno inizialmente appariva del tutto metropolitano, ora la penetrazione è ben diversa. Dissapore indica altre componenti di affermazione:  per sua natura è facile da preparare, anche tramite personale non specializzato, e rispetto agli altri cibi take away ha il plus di non rischiare di raffreddarsi , perché è freddo all’origine. In più, il variegato cromatismo degli ingredienti lo rende molto virale: provate a digitare #poke su instagram  e aggiornate il contatore (2,5 milioni di citazioni al 7 aprile).

 

 

LILO O CHIPS?

E’ facile pensare che il fenomeno-poke stia attingendo sul fascino dell’esotico che spesso ha sostenuto il successo di prodotti stranieri: film come Lilo&stich, personaggi come Bruno Mars o la sempre verde attrazione per spiagge solitarie incidono a vario titolo sull’immaginario del consumatore italiano. Sulla componente salutistica c’è chi ha da controbattere, considerando l’impiego dello zucchero tra gli ingredienti stabili. I più scettici prevedono per il fenomeno un successo effimero, sulle tracce delle chipserie olandesi di qualche anno fa. Che però avevano molti meno ingredienti per variare il piatto:  sia rispetto al bowl, che ai sushi bar o ai ristoranti cinesi, che da essere esotici 30 anni fa si sono ampiamente stabiliti dalle nostre parti.  E quindi, chissà…

 

 

 

Immagini: Growth Capital /Anna Jurt da Pixabay